“A la conta, a la conta,” gridano quelli, e percuotono le tavole de’ letti con qualche bacchetta: quegli conta, giunge a cinquanta, e ricomincia da uno. Spesso sbaglia; e si rifà la conta, e senti dire: “Ce n’è uno soverchio.” “Ammazzalo, e ti trovi”. Dopo la conta della sera si chiudono i cameroni e le stanze.
Nella stanza numero cinque noi non avevamo altro che i letti, una lucerna, un vase immondo: non una seggiola, non un tavolino: il letto serviva per dormire, per sedere, per mangiare, per scrivere, come in criminale. La finestra, volta a settentrione come le altre, riguarda dirimpetto la chiesetta di Sant’Onofrio ed il quartiere dei gendarmi, che fu antico conservatorio di musica, dove furono i vecchi maestri Leo, Jommelli, Durante. A questa finestra non si poteva stare, non solamente perché il sole nella state si riflette molesto dalle case dirimpetto, ma perché dal carcere inferiore saliva un puzzo stomachevole come di vescicante, un puzzo di carne umana corrotta, un puzzo che non può avere altro nome che puzzo della Vicaria. Nel carcere inferiore erano stivati gli uomini come bestie, nudi, lordi, senza neppure i farti dove giacere: e ad ogni finestra del carcere inferiore c’erano uno o due che ad alte voci e lamentevoli cercavano limosina ai passanti e tenevano per una cordicella legata ai ferri, una fiscella di giunchi. Sulla sponda della via facevano mettere molte figure di santi e di madonne, con sopra alcune pietre per non farle portare via dal vento. Chi voleva far limosina deponeva una moneta sopra una figura, la sentinella la prendeva e la poneva nella fiscella pendente, che subito era tirata su.
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Ammazzalo Sant Onofrio Leo Jommelli Vicaria
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