Un bel giorno venne l’ispettore con ordine del ministro, ci fece uscire dalla stanza numero cinque dove eravamo soli, e ci allogò nel camerone dell’infermeria dov’erano carcerati i ladri, falsari, omicidi, avvelenatori di civile condizione e però detti galantuomini. Trista compagnia, ma non così tristo il luogo. La metà del camerone era occupata da’ letti, l’altra metà divisa da un cancello di legno, con le finestre a mezzogiorno, era vuota e di giorno vi lavoravano i sartori: ed io là me n’andavo, e me ne stavo immobile a riguardare il sole per lunghe ore, e a pensare ai casi miei. Un pensiero continuo mi ardeva il cuore che i figliuoli miei e mia moglie pativano per bisogno, ed io che avrei potuto sollevarli col mio lavoro, io stavo lì inerte senza potere far nulla: e questo non per legge o giudizio ma per volere d’un uomo che mi teneva lì. Ma io l’avevo sfidato, ed egli più potente usava del suo vantaggio e mi feriva lì nei miei figliuoli e nella donna mia. Io volevo lavorare, e dissi a mio fratello Peppino di procacciarmi un qualunque lavoro anche da copiar carte: e mio fratello che aveva pratica di architetti e di appaltatori mi fece avere Misure a copiare. Ed io fui contento, e copiavo le giornate intere sino a dolermi le mani. E quando non avevo da copiare scrivevo un dialogo intitolato Le donne, e traducevo in versi l’arte poetica di Orazio facendovi un lungo comento: le quali scritture non le ho lacerate come tante altre perché mi ricordano l’infermeria, e quei sartori che cucivano panni da soldati, ed io tra loro sopra una panchetta menavo la penna.
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Peppino Misure Orazio
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