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      Gli davano quattro pani ed otto zuppe il giorno, e non lo saziavano. Non era ignorante, e conosceva il suo male, e se ne addolorava: ma quando sentiva gli stimoli della fame andava in furore come una belva. Dopo alcun tempo morì, e il professor Nanula tolse la testa al cadavere per conservarla come una rarità anatomica; ma i preti seppero il fatto e lo denunziarono come un’empietà contro un sacerdote. Il professor Nanula ebbe molti fastidi, anche dopo che restituì la testa al becchino.
      Era credo il mese di maggio, e noi una mattina guardavamo un ecclissi del sole dal maggior finestrone dell’ospedale, quando venne un nuovo carcerato, un gentiluomo pulito, con grossi baffi neri, di modi dolci e cortesi, ma profondamente afflitto. Egli era un ricco proprietario della provincia di Reggio, e si chiamava Francesco Pellicano; e avendo presa con me un po’ di dimestichezza, mi raccontò i casi suoi e mi disse: “Io ho la sventura di avere mio padre e mia madre che sono due santocchi: mi volevano far prete, ma io amava perdutamente una mia cugina, e la sposai, e n’ebbi due figliuoli, un maschio e una femmina. Io ero felice, io amavo ed ero riamato: mia moglie era un angelo, ma in capo a pochi anni mi morì. Il mio dolore fu immenso, non avevo riposo né giorno né notte, credevo d’impazzire: in quel dolore mi venne il pensiero, o mi fu suggerito, di abbandonare il mondo e di farmi prete, e mi feci prete con grande gioia dei miei genitori che presero cura de’ miei figliuoli. Ma come fui consacrato, mi cadde un velo dagli occhi, e vidi l’errore fatto.


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Ricordanze della mia vita
Volume Primo
di Luigi Settembrini
pagine 271

   





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