Il congresso si riunì il 20 settembre nell’università, nella bella sala del museo mineralogico, e ci venne il Re, e parlò, e disse come egli era lieto di accogliere nel suo stato il fiore degl’ingegni italiani, dai quali sperava che le scienze avessero incremento. Il Santangelo ne fu il presidente. In quei giorni venne a vedermi F[ilippo] M[arincola] che fu mio caro discepolo, e acquistata l’amicizia del ministro Del Carretto era stato fatto giudice regio, e mi dimandò: “Non siete nel congresso anche voi?” “Non mi hanno voluto.” “Come? e vi siete presentato?” “Sì, ed ho detto di aver laurea e nomina di professore, e mi hanno risposto che non basta. La risposta non mi ha fatto né caldo né freddo, e mi sono ritirato. Fui tra la folla il primo giorno, e forse ci anderò qualche altra volta per udire. E tu che fai con Sua Eccellenza?” L’ho lasciato adesso: sbuffa come un toro e dice che questi scienziati gli danno molte noie per sorvegliarli, e mi ha mostrato un fascio di lettere sopra una tavola dicendomi: ‘Son tutte relazioni su questi signori’. Stava nel suo studio, e scriveva, e si nettava la penna sul soprabito bianco che era tutto sporco d’inchiostro. Per voi poi meglio così, che non vi hanno voluto; ché il vostro nome sarebbe anche in quelle lettere”. Finito il lavoro degli scienziati e delle spie , si cominciò a dire (ed erano voci suggerite dalla polizia) che dei principi italiani il solo papa aveva senno, che quegli scienziati erano tutti settari della giovane Italia mandati dal Mazzini in ogni parte per suscitarvi la rivoluzione.
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