Il padre del Bello perdé il senno e poi la vita: il padre del Mazzoni morì di dolore, e l’unica figliuola rimastagli morì anch’ella: rimaneva sola a chiedere vendetta a Dio ed agli uomini la sconsolata De Riso.
In Reggio furono riempite le carceri: il commissario di polizia Cioffi, osceno di volto, diabolico di animo, tormentava, rapiva, spogliava tutti così sfacciatamente che poi fu accusato e condannato come ladro: e questo gli fu merito più tardi. La commissione militare condannò parecchie centinaia di uomini a varie pene, quarantasei a morte: e questi ebbero per grazia mutata la pena nell’ergastolo. Condotti in Napoli, mentre erano ferrati nell’arsenale in luogo scoperto, dicesi che il re dietro l’invetriata d’un balcone della reggia li guardava con l’occhialino e dimandava ai suoi cortegiani chi era il tale, o il tale altro: e che dei condannati taluno gli volse le spalle, e taluno mirava fiso a quel balcone. Questo avveniva tra noi mentre in Toscana Leopoldo II toglieva dal suo codice la pena di morte. Tutti gl’italiani compiansero tanti sventurati, e specialmente ricordavano i cinque giovani di Gerace, i quali in Livorno ebbero esequie solenni: e dipoi i livornesi montati in furore andarono a casa del console napoletano, ruppero lo stemma, e gridarono morte al tiranno delle Sicilie.
Come giunsero in Napoli le novelle di Messina e di Reggio, fu grande agitazione negli animi, e la polizia incarcerò Carlo Poerio, Mariano d’Ayala, Domenico Mauro, Francesco Trinchera, i baroni Stocco, Marsico, Cozzolino, tutti e tre calabresi.
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