Ma il carcere non faceva più paura, neppure ai condannati, perché tutti sentivano e dicevano che così non poteva durare, e che un dì o l’altro aveva a mutare la scena; e si ripetevano le parole del Romeo: “Se io moro non vi scuorate, e andate innanzi”. Ma quando si seppe della morte di quei cinque giovani alcuni formarono un fiero disegno, assalire la carrozza del re, prenderlo e condurlo in luogo sicuro, o anche ucciderlo, e così cominciare la rivoluzione. Questi furono Vincenzo Mauro, un prete De Ninno, Giuseppe Lamenga, Giuseppe Scola capo di popolani, Vincenzo Dono, ed altri di cui non ricordo i nomi. Saputo che il re andava a Portici la domenica del 31 ottobre dopo il mezzodì lo aspettarono su la via della Marinella per dove la carrozza doveva passare, e dove speravano di avere aiuto dai popolani guidati da lo Scala. Vincenzo Mauro e prete De Ninno passeggiavano insieme accigliati e muti, e ogni tanto si rivolgevano per vedere se veniva. Aspettarono sino a sera, deliberarono di tornare un altro giorno: la notte sette di essi furono arrestati. Un tal Vito Matera di Albano in Basilicata gli aveva denunziati a la polizia; e per questo avviso il Re non uscì in quel giorno, e il fiero disegno non ebbe effetto. Chiusi nelle segrete di Santa Maria Apparente stettero saldi ai tormenti e a le promesse che lor faceva il commessario Campobasso, il quale non potendo indurli a confessare nulla, e vedendosi fallire tutte le sue arti poliziesche, disse: “Voi negate, ma io lo so pur troppo che volevate uccidere il nostro Re, il nostro padre amatissimo”. E cavandosi di tasca un fazzoletto piangeva e singhiozzava.
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