Carlo Poerio mi diceva che trovandosi egli nel medesimo carcere al civile, entrato nella stanza dove si erano fatti gl’interrogatori e v’erano per terra molti pezzi di carta scritta lacerata, egli, parlando al commessario per non so che cosa, pose il piede prima sopra uno sputo e poi sovra quei pezzetti di carta dov’era più scritto, e due gli s’attaccarono alla suola delle scarpe, che egli poi destramente prese, e lesse alcune parole, dalle quali non seppe niente.
Questi disperati e feroci partiti, queste ire impotenti di schiavi dispiacevano agli uomini di senno, i quali dicevano che questi fatti non s’accordavano con quelli degli altri italiani e manderebbero tutto in rovina con danno e vergogna: e consigliavano di mostrar coraggio e dignità civile, non temere di parlare francamente e dire la verità in faccia ad ogni uomo, sperare nell’opinione generale che si andava mutando; con questo solo mezzo lento ma sicuro potersi vincere la bestiale ostinazione del governo: che quando un principe ha torto, più duro pare, più cede: “aspettiamo ancora, e non ci mettiamo noi dal lato dei torto”. L’aspettare è senza pericolo, e piacque. Intanto il Re cominciò a tentennare licenziò il ministro Santangelo, e, come gli consigliava il Pietracatella divise in tre il Ministero dell’interno, ponendo il d’Urso ai lavori pubblici, lo Spinelli all’agricoltura, commercio ed istruzione, ed il Parise all’amministrazione interna, tutti e tre uomini di buona fama. Al Santangelo lo intero stipendio, molti ringraziamenti per gli onorati servigi renduti al Re, ed il titolo di marchese.
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