Rispondevano i siciliani che essi non si separavano dall’Italia, che la loro indipendenza non nuoceva all’Italia la quale doveva unirsi in federazione non in un regno; che la loro costituzione non l’avevano mai perduta perché i popoli non perdono mai i loro diritti, ed ora l’avevano riconquistata col sangue non con le grida, che si toglierebbe ogni rancore, ogni cagione di odio se Napoli fosse sorella non padrona, che conoscevano il Borbone e non volevano neppure il bene che venisse da lui; che non volevano più vedere in Sicilia quei cari fratelli napoletani che avevano bombardate le loro città. Queste cose che in Sicilia si dicevano e si stampavano erano ripetute in Napoli da molti siciliani con parole accese, e dai calabresi di Reggio; onde le parti si aizzavano, i giovani pel caffè discutevano di politica, gridavano contro i ministri e contro tutti. Il Re, che aveva contro i siciliani quello sdegno che si può immaginare, non parlava, lasciava fare i ministri, i quali indecisi e lenti trattavano questo affare, e cedevano a poco a poco, e i siciliani pretendevano. Il ministro Scovazzo che era siciliano diede le sue dimissioni. Si offerse compositore di pace lord Minto, legato straordinario inglese a le corti italiane, il quale stava da lungo tempo in Italia, e fu pregato di andar subito a Palermo ed egli parti, e molti sperarono e pochi sorrisero. Non conchiuse nulla; i siciliani non cessero d’un punto, anzi aggiunsero altre dimande: il nobile lord non tornò più in Napoli, ma fece sapere la risposta del comitato.
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