Il 16 maggio me ne andai anch’io, e mandai la mia rinunzia al Bozzelli. Mi ricordo che in quei giorni ebbi un continuo capogiro, da professore diventato segretario non mi raccapezzavo più.
Il rifatto ministero non poteva far cessare l’agitazione degli animi la quale ogni giorno cresceva. Si scomponeva la gran macchina del vecchio governo ma con poco senno: si toglievano i tristi, ma non si sapeva trovare i buoni per metterli al posto di quelli: i furbi rimasero; i nuovi spesso inetti non sapevano che fare: tutti chiacchieravano, nelle vie si gridava da tutti. Con le grida avevano ottenuto una costituzione, dunque con le grida ciascuno credeva di ottenere un posto. Nei circoli si faceva un gran parlare di tutte le cose, e chi aveva lo scilinguagnolo più spedito, e sfoderava disegni più strani era più applaudito. La stampa sfrenata pubblicava vergogne, calunnie, verità, nefandezze, mordeva tutti. La plebe diceva: “E se non si lavora, e noi stiamo digiuni, che libertà è questa? Prima il Re era uno e mangiava per uno: ora son mille e mangiano per mille. Bisogna che pensiamo ai fatti nostri, anche noi”. Nelle province i contadini invadevano e dividevano tra loro i terreni appartenenti al demanio, o a proprietari che se n’erano già impossessati, ed erano odiati perché arricchiti per usure ed estorsioni: onde si udivano lamenti da tutte le parti. E in Napoli la plebe non avendo terre a dividere, meditava di assalire le case e saccheggiare come aveva fatto nel 1799. A questo scompiglio venne ad aggiungersi come olio a fiamma la narrazione che facevano i giornali della rivoluzione e della repubblica in Francia, i movimenti già cominciati nell’Italia superiore, la costituzione data da Pio IX il 13 marzo per non poter fare altro, la cacciata de’ gesuiti da Genova: onde i cervelli andavano in visibilio, la costituzione non contentava più nessuno, e dicevano bisognava dilargarla per non andare addirittura alla repubblica.
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