Gli corsero a casa persone d’ogni risma, ignoranti, ribaldi, spie degne di galera, e molti proposero se stessi: si scrivevano liste di nomi che a leggerle facevano ribrezzo, e si stampavano: scoppiarono le più pazze ambizioni. Venne da me sinanche un bidello dell’università, Carlo Basile, che aveva stampato certe sue scempiaggini, e con quelle stampe a la mano mi disse: “Presentatemi al principe Pignatelli, proponetemi a ministro di pubblica istruzione, e vi farò vedere io come acconcerò le cose”. Ebbi a sudare per liberarmi da quel matto, che poi me ne volle sempre. Il Pignatelli ebbe il senno di volgersi ad un onesto uomo, a Carlo Troya, scrittore della Storia d’Italia nel medio evo, che tutti rispettavano per l’ingegno e la dottrina, tutti amavano per la bontà dell’animo ed una vita intemerata. E quantunque egli fosse nuovo nelle cose del governare e vecchio, e perduto di gotte, pure ebbe il coraggio di offerirsi, come egli stesso diceva, in olocausto alla sua patria, e si mise alla difficile opera. Chiamò in sua casa il marchese Luigi Dragonetti, Saverio Baldacchini, Casimiro de Lieto, Raffaele Conforti, Aurelio Saliceti, e il colonnello Gabriele Pepe, sannita, d’altra famiglia del generale, prode, dotto, intemerato, fiore di galantuomo e di patriota. Non furono di accordo: il Saliceti, il Conforti, il de Lieto volevano riforma dello statuto: gli altri dicevano di averlo giurato, e volerlo mantenere, si riformerebbe col tempo. I tre uscirono, poi uscì il Pepe, che dimandato disse la cosa schietta.
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