Pochi sentirono che il disubbidire era carità di patria, era dovere più alto ed onorato. Oggi dopo tanti anni io mi sento ancora commosso alla memoria di quel fatto, e mando una benedizione alla memoria di Guglielmo Pepe, un saluto a quegli uffiziali e soldati che magnanimi seguirono quel magnanimo e salvarono almeno l’onore del nome napoletano. Nel ritorno il colonnello Lahalle si uccise con un colpo di pistola, il colonnello Testa morì di dolore: pochi ufficiali e sottoufficiali tornarono al Pepe in Bologna: tutti gli altri maledetti dalle popolazioni tra cui passavano, si ridussero nel regno, e sentendosi vituperati e spregiati perché avevano ubbidito al re, s’inviperarono fieramente e divennero nemici del popolo. Re Ferdinando riusciva così a separare l’esercito dal popolo, e farlo tutto suo.
Scrivevano dalle Calabrie, che verrebbero essi sopra Napoli a cacciare il Borbone; e forse il Ricciardi, come il cardinal Ruffo nel 1799, voleva sollevare le moltitudini calabresi e ingrossando per via come una fiumana rovesciarsi sopra Napoli, e andare anche oltre: ma altri uomini, altri tempi, altra causa, ed egli non cardinale. La rivoluzione di Calabria era cosa molto grave, se fosse cresciuta: e però il governo pensò di opprimerla subito e con vigore. Ferdinando trovò subito soldati, armi, munizioni, vesti, scarpe, ogni cosa necessaria: e ai primi giorni di giugno partì per mare il generale Ferdinando Nunziante con quattromila uomini, sbarcò al Pizzo, si fermò in Monteleone: con duemila partì il generale Busacca, e sbarcato a Sapri prese la via delle Calabrie, e così le separò dalla Basilicata e dal Cilento che cominciavano a rumoreggiare: il generale Lanza con altri duemila uomini per terra prese la via consolare minacciando le popolazioni d’intorno, e più tardi si univa al Busacca.
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