Fra essi ce n’eran di furbi, che li guidavano un po’, e saliti più in alto, uscivano di quella fangaia. Il Re lasciava fare, ma badava che non facessero troppo, non gli guastassero i suoi disegni, e talvolta li frenava, tanto per mostrar loro che il padrone era egli, comandava egli, e non si lasciava vincere la mano da nessuno.
La camarilla avrebbe voluto togliere subito lo statuto, accoppare tutti i liberali o almeno i capi, e governar con la sciabola, e odiava fieramente i deputati, e li chiamava i chiacchieroni, e più volte proposero, di uccidere quelli che parlavano più arditi. Nella Camera il deputato Giuseppe Massari disse memorevoli parole ai ministri: “Noi dimentichiamo tutti i vostri errori e le vostre colpe, ad un solo patto, che mandiate subito il nostro esercito e le nostre navi a combattere per la causa italiana: aiutate la causa d’Italia, e noi vi perdoneremo, anzi vi benediremo”. Il Bozzelli disse che egli per ragioni di civile prudenza non poteva rispondere. E che poteva dire egli ministro di Ferdinando II, che era il più fiero nemico della causa italiana, e che avrebbe mandati i suoi soldati, sì, ma per aiuto all’Austria? E quando su la fine di agosto si seppe la ritirata, la sconfitta, la sventura di re Carlo Alberto, nella Camera si levò la voce: “Vadano i nostri soldati a rimettere la fortuna, che c’è ancora Venezia che combatte”. I ministri non risposero. Il deputato marchese Luigi Dragonetti interpellava il ministro su le inique e feroci opere del governo nelle Calabria: e il Bozzelli difendeva quelle opere come giuste ed inevitabili, e diceva che era liberale anch’egli, e sollevando i polsi: “Ho ancora qui i segni delle manette che più volte mi hanno stretto i polsi”. E in questo dire e dimenarsi cade su gli scalini della tribuna.
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