Carlo Poerio, come avvocato, si presentò a difenderli, e sebbene si vedesse intorno militari che lo minacciavano e lo schernivano, egli fece il suo dovere. Furono condannati a morte: per grazia all’ergastolo; stettero sepolti in un sotterraneo di torre d’Orlando in Gaeta sino al 1860. Giacomo Longo come ne uscì corse a Capua dove si combatteva, fu ferito nella fronte, e cadde; si levò, fasciò la ferita, gridò, “viva Italia”, e seguitò a combattere, finché fu ritratto dagli amici. Il Ribotti penò molti anni in castel Sant’Elmo: gli altri nelle galere prima, poi sulle isole. I deputati Scialoia e Conforti dicevano ai ministri: “Se i siciliani sono ribelli, giudicateli: se sono prigionieri di guerra trattateli come prigionieri”. E i ministri rispondevano con ingiurie ai siciliani, ai calabresi, ai deputati chiamandoli stolti e faziosi. Fra i prigionieri era Francesco Angherà, giudicato col Longo e il Delli Franci, ma assoluto perché aveva già preso il suo congedo dalla milizia quando si messe a combattere per la rivoluzione. Assoluto sì, ma era tenuto nel carcere di San Francesco senza speranza di uscirne: onde egli, che piacevole uomo era, si travestì e sfigurò in modo che uscì dal carcere con molta franchezza e senza essere riconosciuto. Lo sdegno della polizia fu grande, e grandissime le risa dei liberali.
In quei giorni si vide passeggiare innanzi la reggia tra i militari un prete grosso della persona e vecchio e brutto; ed io lo vidi in mezzo a due uffiziali della guardia che cianciavano con lui e ridevano.
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