Tre dovevano morire: ma chi tra noi? E perché questo ritardo, questa sevizia di tenerci tanto tempo incerti? Sospettammo si attendesse Nicola Nisco, o Felice Barilla da San Francesco. Ognuno temeva per sé, temeva pei compagni. Filippo mi si accostò, e pianamente mi disse: "Se io moro, scrivi". Io m'intesi straziar l'anima e non risposi; Michele, che udì le parole, sospirò dolorosamente. Dimandavamo ai custodi chi erano i condannati a morte, ed essi si stringevano nelle spalle, e non rispondevano: ci facevamo allo sportellino della porta ed alla finestra per leggere in volto alle persone alcuna cosa, ma tutti ci guardavano un poco, e subito volgevano gli occhi. I gendarmi stavano schierati nel cortile: molti sbirri armati stavano fuori la porta del carcere. Infine vedemmo discendere alcuni de' nostri giudici de' quali tre, con Ferdinando Schenardi, spia reale e notissima, entrarono in una carrozza e partirono. Dopo di aver condannati tre uomini a morte, moltissimi al ferri, sparsa la desolazione in molte famiglie, confermata la servitù della patria, e detto al governo: "Indicate e noi percuoteremo", andarono a godere nelle loro case i piaceri della mensa e del riposo, le carezze delle mogli e de' figliuoli, e la speranza di onori e di maggiori soldi.
Dopo una lunga ora di strazi ci fecero entrare nella stanza di udienza, e ci chiusero fra i due cancelli di ferro che ivi sono; fatti venire per udire la decisione ancora Giuseppe Caprio ed Emilio Mazza che stavano nella carcere comune del popolo.
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