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      Alle pareti di questa stanzetta stanno appiccate con midolla di pane varie figure della vergine e dei santi, innanzi alle quali arde una lucerna posta su di un pezzo di legno conficcato nel muro. Qui stanno i condannati a morte. Entrati in questa stanzetta con quattro custodi ed alcuni prigionieri serventi detti chiamatori, io dissi ad un custode: "Se devi ricercarmi le vesti, fa pure". Egli si confondeva, non sapeva che fare, non voleva parlare. Poco dopo entra don Ciccio, il custode maggiore, e con le lagrime agli occhi ci dice: "Dovete spogliarvi e rivestirvi dei panni del fisco. Non vi turbate, perché è una formalità. O Dio, che debbo io fare ed a chi!" Ci spogliarono di tutti i panni, e lasciateci solo le calzette e le scarpe, ci vestirono di una camicia, di un paio di calzoni e di una giubba di tela bionda, aspra di stecchi, e puzzolente di canape. Io per caso mi trovai in una tasca una letterina scrittami dalla mia Giulietta, la mostrai al custode maggiore, e risoluto gli dissi: "È una lettera di mia figlia, voglio ritenerla, morirò con essa in mano". Ei rivolse la faccia e mi disse: "Ritenetela". Io me la riposi sul cuore. Ci fecero sedere a terra, ci posero le pastoie dette traverse, e le ribadirono con aspri colpi di martello; pesavano più di dodici rotoli, non ci facevano muovere un passo senza essere sostenuti, e con un fazzoletto tenevamo sospesi i grossi perni che dolorosamente pesavano su i talloni. Dimandammo i nostri mantelli per difenderci dal freddo: ci portarono mantelli di altri prigionieri, ché noi non potevamo ritenere alcun abito nostro.


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Ricordanze della mia vita
Volume Secondo
di Luigi Settembrini
pagine 356

   





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