Fummo gettati in una barcaccia da carboni, dalla quale dovemmo dire i nostri nomi e le nostre qualità personali: poi fummo fatti salire sul vapore il Nettuno, e discesi in una stanza a prua, dove stemmo stivati come negri. I nuovi abiti, e la fioca luce non ci facevano più riconoscere tra noi: le catene ci facevano dolore: ad ogni movimento davano un rumore sinistro. Gettati sul pavimento, passammo una notte d'inferno: dolorosissima per me che da tre giorni non aveva chiuso gli occhi. Giungemmo innanzi Nisida. La mattina del 5 per tempissimo diciotto dei nostri compagni discesero. Il Barilla, perché prete, quantunque condannato all'ergastolo, avrebbe dovuto andare in Nisida: ma la fretta di mandarci via non aveva fatto badare a nulla: ed il Barilla ed il Mazza rimasero con noi. Io non dirò quanto fu penosa quella separazione. Abbracciai tutti, abbracciai Carlo Poerio, e Michele, il quale mi richiamò, ma io lo fuggii. Furono chiusi nel bagno di Nisida, dove fu sciolto l'orribile accoppiamento, e ciascuno ebbe una catena a quattro maglie[1]. Noi destinati all'ergastolo di Santo Stefano non potemmo partire perché il mare era turbato, e restammo sull'ancora. Io ero accoppiato con Filippo, Salvatore con Emilio Mazza: Felice Barilla non aveva alcun legame, perché prete. Rimasti noi cinque avemmo alcune gentilezze dal comandante del vapore signor Alfieri, e dal colonnello signor Salazar mandato dal Re per condurci: ci fu data una stanzina su la coperta, ci diedero acqua per lavarci le mani e la faccia, ci diedero pranzo, ci permisero passeggiare su la coperta: ci dissero che erano dolenti di non poterci fare altro.
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