Il sabato 1° febbraio, dopo che ti lasciai, scendendo le scale con la signora Agresti, io l'esortai a venirsene in mia casa, come quella che è più vicina alla Vicaria, per avere il commodo di tornare subito ad ascoltare la decisione della vostra e nostra sorte, perché noi credevamo di poterla ascoltare. La signora acconsentì e venne meco. Quali fossero i discorsi che noi povere disgraziate facevamo, lascio a te l'immaginarli. Un silenzio per tutto il paese, un lutto generale, squallidi volti, una mestizia indicibile. Quelli che ci conoscevano, ci guardavano, ed additandoci dicevano: "Povere signore, poveri ragazzi!" Se incontravamo persona amica, appena aveva forza di domandarci: "Come state? come sta vostro marito?" Dopo le mie risposte, diceva: "Non temete, o signora, e sperate in Dio". Io rispondeva: "E di che debbo temere? Non avete intesa la discussione della causa, e le difese? che cosa è contraria a mio marito?" "Nulla di contrario, ma ricordatevi quanto vostro marito è odiato." "Lo so," replicava io: "sarà condannato al ferri perché si chiama Luigi Settembrini, ma tutto il mondo sa che viene assassinato, che già sono designate le vittime. Egli sarà condannato ai ferri, ma quelli che lo condanneranno avranno infamia eterna, ed i loro figli per vergogna dovranno prendere altro cognome." Mi rispondeva con sospiri:
Faccia Dio che sia condannato ai ferri!
La signora ed io facevamo molta maraviglia come si poteva temere condanna maggiore dei ferri. "In verità io vedo brutti segni; tutti sono in gran timore; si teme di morte; ma chi sarà condannato a morte?
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