Durante tutto questo tempo la signora Agresti stava tutta concentrata, pensierosa e spettatrice di quanto accadeva in mia casa.
Il gran concorso di gente mi dava grande fastidio, ci porgevano gli abiti, i cappelli, ci accompagnavano coi lumi per le scale, con grande pianto di tutti.
Scesi giù, le carrozze erano accerchiate di gente; in una ci ponemmo la signora Agresti, io coi nostri due figli e Vincenzo e Peppino tuoi fratelli: nell'altra la moglie, i figli, ed il fratello di Faucitano. Erano due ore di notte: il viaggio fu silenzioso, nessuno disse una parola, di tanto in tanto gettavamo sospiri. Dopo tre ore giungemmo a Caserta. La notte, quel gran palazzo, quella grande largura, le sentinelle chiuse in certi cappotti con cappucci bianchi, che li coprivano da capo a piedi, un silenzio generale, tutto faceva terrore, io mi sentiva stringere il cuore, e diceva fra me stessa: "E perché mi trovo qui di notte? Ah io sono qui per domandare la vita del mio Luigi. O mio Dio, dammi forza, aiutami, e dà forza a quello sventurato! Chi sa ora che fa, che dice, che pensa, se pensa che io sono qui!" Entrammo nel palazzo reale: Peppino fece chiamare un capitano e gli domandò di poter parlare al re, o al segretario del re signor Corsi, il quale poche ore innanzi gli avea consigliato di condurre le famiglie, farle vedere dal re sottomesse ed umiliate. Il capitano rispose che non si poteva passare alcuno avviso né al re né a Corsi, perché erano a tavola. Peppino seguitava a parlare: noi tremavamo di freddo, e stavamo vicino una sentinella che ci dimandò: "Voi siete le famiglie dei condannati a morte?
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