La povera mia Giulia era moribonda, ed una volta la madre me la mandò per baciarla e benedirla l'ultima volta! Io ero allora nella Vicaria, io rabbrividisco a ricordare quello che sentii quel giorno. Ma il mio bacio e la mia benedizione fu vita alla figlia mia, che a poco a poco lentissimamente usciva dal male. La povera bambina, mi diceva la madre, stava i giorni interi seduta su di una seggiolina, con le mani agli occhi ammalati, e quando udiva che veniva qualche persona, levando il capo e le mani, e scoprendo un poco gli occhi diceva: Mamma, questi è papà? Ed alla risposta che no, tornava alla sua posizione, e più non diceva. Io voleva vedere i figli miei, e la madre me li conduceva. Raffaele mi faceva veder suoi esemplari, perché cominciava ad andare a scuola, e Giulia cominciava a camminar sola. Dopo tre anni e mezzo di carcere e di pene crudeli tornai a casa mia. Era la sera del 14 ottobre 1842: piovigginava: io discesi di carrozza e dimandai ad una donna se lì abitasse una signora che aveva il marito carcerato: la donna mi rispose di sì, e indovinando chi io mi fossi diede un grido, e chiamò la mia serva. Salgo, e vedo su la porta aperta il mio piccolo Raffaele che mi abbraccia, e piangendo mi dice: Papà, non tornate più carcerato. Mia moglie, oh! mia moglie, mi abbracciò, io l'abbracciai: oh che momento! Io non so se ritornerà un'altra volta quel momento di gioia, che io non so esprimere, che nessuno può sentire se non ha sofferto quello che aveva sofferto io. Le parole di mio figlio mi suonano ancora all'orecchio: Non tornate più carcerato!
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