Santo Stefano, 7 marzo (1854).
Cinquantadue anni prima di me fu in Santo Stefano anche mio padre nel 1799. In quale di queste novantanove celle stette il povero mio padre? Oh, se lo sapessi, vorrei baciare quel luogo, vorrei occupare io quel luogo dove mio padre penò quattordici mesi, ed ivi pregare più affettuosamente da Dio la pace de' giusti a quella cara anima. Pensava egli allora che cinquantadue anni dopo verrebbe qui un figliuolo, che gli nascerebbe nel 1813?
Santo Stefano, 9 marzo (1854).
In una cella di sedici palmi ogni lato, siamo otto prigionieri, tre politici, e cinque comuni. I tre politici siamo Silvio, io, e un povero giovane siciliano il quale combattendo in Calabria ebbe portato via da una palla un occhio, la parte superiore del naso, e più che la metà del senno, di cui prima aveva anche poco. Dei comuni il primo (io li dipingo secondo i posti che hanno nella stanza) è un contadino abruzzese di un paesello del Chietino, un ometto grigio, con certi occhiuzzi neri, lucenti e maliziosi, con un naso come tromba pel quale è chiamato Nasone, con una voce stridula e fendente tartaglia strane parole del suo dialetto: avaro, sudicio, schifo oltre ogni dire, ha un letto che sarebbe onorato se fosse chiamato canile: presta danari ad usura, come i più fanno, e ne raschia anche l'untume: serba il tabacco in una pina selvaggia scavata, e di tanto in tanto ne versa un tantino sul dorso della mano, vi pone su il trombone e tira. È da venticinque anni nell'ergastolo per molti furti con ferite ed un omicidio, commessi con altri compagni, che sono anche qui ma in altre stanze.
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