La fortuna mi è stata sempre nemica spietata ed implacabile, che m'ha tenuto stretto nelle sue tanaglie: spesso avrei molto da dire, e mi manca la parola facile: avrei voluto vedere il mondo, e non ho potuto mai partirmi del nido: avrei desiderato libri per pascere almeno la mente avidissima. A questa mia nemica io oppongo il mio coraggio, ma non basto: posso resistere come tetragono ai suoi colpi, ma vincerla no. Dovrò cadere certamente: cadessi almeno come gli eroi della poesia greca che soccombevano al fato, e cadevano gloriosamente! La gloria non mi fu destinata: io nacqui solamente per patire. Chi sa se potrò compiere questa mia pesantissima fatica e se compiutala, avrà la sorte di riuscire buona e di darmi un po' di fama? E che fama sarà quella di buon traduttore? E chi saprà quanto mi costa, come l'ho fatta, con quali mezzi, in qual luogo, tra quali spasimi? Che importa di tutto questo al leggitori, i quali riguardano solo all'opera, e non vogliono saper come è fatta? Ma e che importa a me de' leggitori, della fama, e del mondo? Se ho perduto ogni cosa, se mi hanno tolto la pace, la famiglia, l'aria, il moto, il cielo, e m'han gettato in un sepolcro, debbo io serbare ancora illusioni, e cercar la gloria che è l'ultima camicia di cui si spoglia il savio, come fu detto? Fo questa fatica per occupare la mente e non farla inselvatichire stupidamente: l'occupazione mi giova, perché mi fa sentir meno l'ergastolo: dunque la fo per me: se la gioverà anche agli altri, mi piacerà di aver giovato agli altri anche dal luogo dove io sono: se no, tanto meglio, avrò giovato a me solo.
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