Dopo dieci mesi venne la generosa grazia ad entrambi; e la pena di morte fu commutata in quella dell'ergastolo. Indi a poco i due mutilati ed onorati giovani con una lunga funata di settantadue ribaldi condannati alla galera, furono menati da Cosenza a Paola, dove imbarcati sovra un brigantino rimorchiato da un battello a vapore, sbattuti pel Faro e lo Spartivento, pel Jonio, per l'Adriatico, sbarcarono a Pescara, e furono chiusi in quel bagno. Colà rimasero i galeotti: i due giovani con altri due ergastolani furono per gli Abruzzi, di carcere in carcere, orribilmente trascinati per lunghissima via sino a Gaeta. Fa pietà a udire gli strazi che patirono; in Pescara avevano la febbre, dimandarono un po' di brodo dell'ospedale o il permesso di farsene a loro spese, e fu loro risposto dal feroce comandante: "Per voi c'è il brodo delle fave". E più feroce del comandante era un cappellano sbilenco e deforme nella faccia, che all'udire i poveri giovani lamentarsi di certe durezze soverchie, voleva farli battere colle verghe; e il tigre chiercuto l'avria pure fatto se la moglie del comandante impietosita non avesse dissuaso il marito da quell'atto scellerato. Per il lungo viaggio coi polsi stretti dalle manette e le braccia dalle funi, non avevano forza di camminare: la pioggia gl'immollava, affondavano nelle fangaie, la febbre li bruciava, i gendarmi li insultavano e li spogliavano, morivano di fame e non avevano denaro da comprarsi il pane, la notte tremavano di freddo e non avevano per ricoprirsi che le vesti immollate d'acqua, spesso erano chiusi in orrendi cessi e dovevano poggiare il capo su fetide cloache; gli sfortunati credevano di morire di stenti, di fame, di spossatezza.
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