Mia madre che aveva nome Marta, fece cinque figli tutti maschi, dei quali io sono il primogenito, e la perdei che avevo sedici anni. Povera madre quanto mi amava, e che crudele malattia ella ebbe! Io la vestiva, la prendeva tra le braccia, io la tramutava da un letto ad un altro, ed ella morì tra le mie braccia chiamandomi a nome e benedicendomi.
Io l'accompagnai alla chiesa, io primo mi accostai alla bara, le baciai la mano e la faccia per l'ultima volta. Quanto era buona quella cara mamma e quanto mi amava!
Rimasti così tutti e cinque noi fummo educati da un nostro zio, che è un savio e dabben uomo, e ci ha tenuto luogo di madre e di padre. Mio padre, come sapete, è morto per una caduta da cavallo, e qui ne ho avuto la trista novella. Nel carcere di Cosenza seppi d'aver perduto di febbre un fratello. Ora la mia famiglia si compone di mio zio, di tre fratelli, e di me che sono nell'ergastolo, e non so se potrò rivedere la casa mia, se potrò tornare accanto a quel focolare dove ho veduto mio nonno, dove ho dormito tra le braccia di mia madre, dove baciavo le vecchie e dure guance del padre mio, quando la sera tornava dai campi; se potrò sedere un'altra volta a mensa con mio zio e coi miei fratelli vicino a quel fuoco; se potrò un'altra volta baciare la mano al mio buon zio, e chiedergli perdono dei miei trascorsi giovanili, che tanto addoloravano lui e mio padre. Io ne ho fatte molte pazzie giovanili, ed ora merito ciò che soffro.
E così affettuosamente parla di cose che io non potrei né saprei ridire.
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Marta Cosenza
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