Spesso, forse un due o tre volte la settimana, pranzo col mio carissimo Gennarino, e con Francesco de Simone, galantuomo di Cosenza, condannato alla galera per i fatti del 1844, e poi pei fatti del 1848 condannato all'ergastolo, bravo, affettuoso, leale, amato moltissimo da Gennarino, che lo chiama per celia: "Signor zio", ed amato anche da me per molte sue buone parti. Il mio siniscalco č un giovane di ventisette anni, ma della pių buona pasta del mondo; del pių bel cuore che io mi abbia conosciuto mai. Figuratevi un giovinastro alto, diritto, ben fatto della persona, e con lunga chioma, ma un uccellacelo, scapato, sventato, distratto, che parlando nel suo dialetto pare un tartaro, anzi gestisce pių che parla, e leva le mani in alto, e mugola inarticolatamente: che ora corruga gli occhi loschi e sorride, ora li straluna e piglia un atteggiamento goffamente tragico: facile a sdegnarsi, facile a placarsi, spesso in veste ed aria di gentiluomo, spesso tinto, lordo, affumicato, rabbuffato come un fornaio: e fornaio era la sua arte. Se ha per mano qualche faccenda, ed uno gli dice qualche parola, egli si dimentica la faccenda che ha per mano, leva alto le braccia e comincia a parlare per modo che bisogna chiamarlo, gridare, scuoterlo per farlo attendere. Buono, onesto, leale, affettuoso, sincero, segreto, ha avuto sempre l'affezione di quanti lo han conosciuto. Se i suoi paesani gli cercano qualche cosa, ei non sa dire di no; se non ha danari li toglie in prestito per soccorrere chi non ha.
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