Povero amico! Egli mi parla sempre di questa disgrazia, egli ha il cuore sbranato dal dolore, e mi dice: Vedi: io ho cinque ferite, ho una mano storpia, fui dannato a morte, ora sono nell'ergastolo per aver voluto fare il bene: e mi hanno assassinato mio fratello, Luciano mio tanto buono e caro! Ed a chi aveva fatto male, a chi poteva egli far male quell'angelo?"
Io non ho cuore di descrivere il suo dolore, di riferire le sue parole: io sento voglia di piangere anch'io.
Santo Stefano, 8 aprile (1855) giorno di pasqua.
Sono circa un quindici giorni che il mio amico Silvio Spaventa ed io siamo in una grande stanza dell'ospedale, non per malattia di corpo, ma per fuggire l'ergastolo, avere un po' di quiete e di solitudine, poter leggere e scrivere in silenzio, e tentare di risanare la mente ammalata. E già mi pare di essere uscito dal tremendo ergastolo: mi vedo alquanto spazio intorno, mi vedo netto, passeggio sovra un pavimento di mattoni, non più quelle belve nell'anfiteatro, non più quelle voci; mi pare quasi di sognare. Oh durasse questo sogno! non tornassi più là!
Dal largo ed alto finestrone, che ha una buona invetriata, si vede lo spazzo che è innanzi l'ergastolo; la campagna dell'isola divisa in vari scompartimenti da muri a secco e da siepi di fichi d'india; una casipola che è sulla vetta più alta di questo scoglio, dove sorgeva la casa di Giulia figliuola di Augusto; una valletta nella quale pascolano una vacca, un'asina, alquante pecore e capre, guidate da un pecoraio forzato, e che si mantengono per il latte dell'ospedale: si vedono filari di viti, il grano che verdeggia sul terreno, e alquanti zappatori lontani che alle giubbe rosse si riconoscono per forzati: la sera vedo il cielo stellato, il giorno riposo l'occhio sul verde e sul mare e sulla strada che scende giù alla marina, per la quale sono salito, ora sono più che quattro anni, e non so quando e come discenderò.
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