Quando potrò lo concederò volentieri.
Andare e tornare due volte al giorno dalla piazza Carlo Felice all'ospedale era per me fatica grande, e la sera mi sentiva stanca, pure per mio figlio avrei fatto ogni fatica.
Dopo una ventina di giorni Raffaele fu in istato di essere trasportato. Presi una portantina coverta di un drappo verde, lo feci collocare giacente in essa, sollevare da quattro facchini, e via. Era il mese di luglio, ed io che lo seguiva a piedi mi sentiva arsa dal sole, e ad ogni passo mi pareva cadere. Pure si giunse a casa, lo feci adagiare in un letto pulito, mi sedei vicino a lui, ed egli per poco si addormentò. Non medici, non medicine, ma il fiato mio, e gli occhi miei lo ristoravano a poco a poco. Ebbi ancora un fiasco di buon vino da uno dei cappuccini che lo aveva assistito, glielo pagai ed egli di più mi diede alcune figurine. Ma la casa dove stavamo era cattiva: la lasciammo per un'altra più pulita ed ariosa all'Acqua Verde; e c'era un terrazza su la quale Raffaele era portato sopra una seggiola in certe ore del giorno, e lì si rianimava all'aria aperta. Veniva spesso il generale Mengaldo, e una volta venne con lui anche il conte Mamiani a vedermi: ci venivano il Boldoni e il Carbonelli tutti due affettuosissimi.
Un giorno il generale mi disse: "Vengono i soldati di Crimea, e si festeggia il loro ritorno: giacché vi trovate in Genova bisogna vedere questa festa". Andai con lui, e non so dire quanto fui commossa a vedere quel soldati, a udire quella gente che gridava "viva Italia e viva l'esercito," a vedere sventolare le bandiere tricolori.
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