Sento dire: che la giustizia deve farsi nelle cause comuni, ma nelle cause di stato chi è vinto dev'essere punito. Che dunque mi resta a fare? Abbandonarmi alla giustizia di Dio, e dignitosamente tacere: mi sono difeso al cospetto del mondo, mi giudichi il mondo. Ma vorrò vedere anche questo, che per un'assertiva di una spia pagata, e per un avere inteso dire di un uomo che poi si è disdetto, otto giudici vorranno dichiararmi reo; e se essi per timore di non perdere il loro uffizio vorranno vendere per cento otto ducati il mese l'anima loro, la loro fama, la fama dei loro figliuoli, il sangue di quarantadue persone, e la sorte della patria.
Difesa di Luigi Settembrini dettata innanzi la corte criminale di Napoli il dì 9 e 10 gennaio 1851
IQuando il procurator generale mi richiedeva a morte, i miei figliuoli, che dalla tribuna udirono le sue parole, discesi giù nel carcere piangendo, ed abbracciandomi mi dissero: "Padre che delitto avete fatto? Perché vi vogliono far morire?" Io per non ispegnere in essi troppo presto i germi di virtù, li benedissi, e risposi loro, che confidassero nei giudici. Confidando adunque in voi, o signori, e volendo anche da questo sgabello dare agli infelici miei figliuoli un insegnamento, che forse può essere l'ultimo, io vi dirò brevemente alcune parole in mia difesa; non per aggiungere alcuna cosa a quello che disse il dotto e cordato mio difensore, ma perché la legge mi da questo diritto, ed io voglio usarne.
Il rispetto che m'incute la vostra presenza, la naturale mia verecondia, l'estremo pericolo che mi sovrasta e questo momento solenne e terribile mi turbano il cuore e mi fan tremare la mente.
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Dio Luigi Settembrini Napoli
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