Mi piace imaginarmi nei rossi vespri di Roma, sotto le brune chiome dei lecci, la Lagide incantatrice ascoltare l'eloquenza di Cicerone, e a quella «tenere bordone» nella sua dolce favella. Un così soave parlare, aveva ella, una così melodica voce che ognuno ne restava colpito: ed in tante favelle poteva rivolgersi altrui, che quasi mai l'interprete le era necessario: agli egiziani, arabi, ebrei, etiopi, ai siri, ai medii, ai parti, essa parlava nelle loro lingue: e certo ella apprese, su le fiorite rive del Tevere, la lingua dei dominatori del mondo. Il divino Giulio ne era folle, come folle può essere un nume: da gran cavaliere quirite le prodigava ogni maniera di omaggi, fino ad innalzarle una statua nel tempio di Venere. Ma egli l'amava come ama un nume, con una sola parte del suo cuore: ed ella sognava l'amore che dà tutto, l'amore in cui abbia principio e fine il mondo!
Il pugnale di Bruto mise fine all'idillio di Roma: come il Dittatore cadde, ella riguadagnò il sacro suolo e attese.
Poco di poi, Marc'Antonio, con le sue legioni, con le sue galere, occupava l'Oriente; e il capitano di Roma, il soldato di Farsaglia e di Filippi, l'amico prediletto di Giulio Cesare, invitava ad abboccarsi con lui a Tarso la Regina d'Egitto. L'incontro, il romanzo d'amore di quei due, è qualche cosa di così bello, di così tragico, di così epico, che l'arte nulla ha mai potuto aggiungervi: la storia di Cleopatra ha ispirato circa trenta tragedie, molti canti, e un'infinità di opere d'arte pittorica; ma la finzione non ha mai, a mio credere, superata la realtà. Quella storia, specialmente l'epilogo, è una epopea di verità.
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