» Ah veramente a me pare che nella vita umana la bontà non sia ancora onorata abbastanza! O forse che un'opera di grande bontà non è pari, in virtù attiva, ad un'opera di genio? Anzi io vorrei, se ci fosse il culto delle virtù astratte, sotto forma di simboli, io vorrei dare l'onore del più elevato altare alla perfetta Bontà: la quale «con le ginocchia della mente inchine» dovrebbe essere adorata. E Giulia Récamier fu idealmente buona, ed io vedo la sua bontà splendere davanti agli occhi della mia mente, più luminosa ancora della sua fulgida bellezza, più ancora del candore di giglio della sua immacolata castità.
Quando ella fu condotta, sposa giovinetta, dal marito nominale che l'amava con affetto di tenero padre, dalla provincia in quel torbido centro di vita che allora più che mai era Parigi, sotto il governo del Direttorio, non vi rimase a lungo ignorata.
Quantunque di modesta famiglia, e per tradizioni e per relazioni personali ella fosse devota all'antico regime, pure si guadagnò in breve, non solo la generale simpatia, ma la popolarità, ed occupò subito un posto eminente su la scena di quel teatro a rappresentazioni così straordinarie. Parigi era preso allora come da una frenesia di godimento e di gioia di vivere, dal bisogno collettivo di rifarsi del tempo perduto, del dolore sofferto.
L'adorazione della bellezza era una delle forme di quel nuovo spirito di gioia: e, guidata dagli «intellettuali» di allora, l'anima collettiva, affettava ancor più che forse non sentisse, tendenze verso il ritorno al gusto pagano.
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