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      Fino dal cominciare della guerra provarono la fortuna contraria, e tutto loro riusciva male: nè solamente erano stati abbandonati dai loro alleati, ma li vedevano servire nel campo nemico. I Cremonesi ed i Pavesi abusavano del favore imperiale per rovinare le campagne, estirpando e bruciando i vigneti, i fichi, gli ulivi115; atterravano le case, scannavano i prigionieri; e per dirlo in una parola, facevano la guerra con quella feroce barbarie cui s'abbandonano spesso i deboli esacerbati da lunga oppressione, ed inebriati dalla presente prosperità116. I Milanesi miravano dall'alto delle mura la rovina delle loro campagne, e soffrivano nell'interno la fame e la mortalità; e molti del popolo che risguardavano siccome un sacro dovere l'ubbidienza all'imperatore, attribuivano alla vendetta del cielo queste, per essi, nuove calamità. Altri, e specialmente la gioventù, mostravano maggior costanza; e nelle loro assemblee obbligavansi gli uni verso gli altri a sacrificare la vita per la salvezza della patria, e per l'onore della città.
      Mentre i cittadini divisi di sentimento rimanevano indecisi sul partito da prendersi, il conte di Biandrate, il principale e più potente gentiluomo di Milano, aveva saputo acquistarsi la confidenza dei due opposti partiti, e, senza perdere il favore popolare, conservare il suo credito alla corte. Poi ch'ebbe scandagliato l'animo dell'imperatore, chiese ed ottenne dai consoli di adunare il popolo nella piazza pubblica. Allora rammentando ai suoi concittadini quanto aveva fatto egli medesimo per difesa della patria, ed il suo conosciuto attaccamento alla causa della libertà, il più grande dei beni, il solo per cui s'acquisti gloria combattendo, gli scongiurò a non prolungare una resistenza che omai non lasciava veruna speranza di felice fine, di cedere, non alle armi, ma alla fame, alla peste, più assai terribili nemici di Federico; di cedere a coloro cui i loro antenati non avevano sdegnato di sottomettersi, avendo malgrado il valore e la virtù loro ubbidito ai re transalpini, a Carlo Magno, al grande Ottone; di cedere perchè instabile è la fortuna, onde conservando illesa la loro patria potevano pure sperare di vederla un giorno ricuperare l'antico suo splendore117.


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Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo
Tomo II
di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi
1819 pagine 316

   





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