Rispose Arnoldo, abate di Citeaux: «Colpite tutti, il Signore conoscerà bene i suoi fedeli!» ed il massacro fu universale400.
«L'anno del Signore 1211, il conte di Monfort, l'atleta di Cristo, assediò coll'armata crociata il forte castello di Vaure nella diocesi di Tolosa, ove si erano rinchiusi molti eretici; e l'ebbe a patti, dopo essersi coraggiosamente battuti d'ambe le parti. Avendovi trovati circa quattrocento eretici perfetti che non vollero convertirsi, il principe cattolico li fece consumare il giorno dell'Invenzione di Santa Croce col fuoco materiale, destinandoli così all'eterno che deve divorarli. Aymerico, nobile signore di Monreale e di Lauriat, che con altri gentiluomini aveva presa la difesa di questo castello, fu condannato ad essere appiccato dallo stesso conte, che fece morire sotto la scure più di novanta gentiluomini, e gettare in un pozzo e ricoprire di sassi Geralda signora del castello, eretica, e sorella d'Aymerico401.
In mezzo a tali massacri che rinnovavansi ogni giorno, col di cui racconto non rattristerò più a lungo i miei lettori, san Domenico spiegò più manifestamente il suo carattere. Passava egli senza guardia a traverso di un paese abitato dagli eretici, e dove aveva fatto spargere molto sangue. Tutto ad un tratto vien colto in mezzo da costoro: «non hai tu timore della morte? gli dissero: che farai tu allorchè noi ti avremo preso? Allora l'atleta del Signore (tale è il racconto fattone dal Beato Giordano suo compagno, che ne scrisse la vita), infiammato d'ardore per il martirio, gli rispose: in tal caso vi pregherei di non terminare troppo presto il mio supplizio; di non uccidermi subito sotto i vostri colpi, ma poc'a poco e successivamente; di mutilare ad uno ad uno i miei membri e pormeli innanzi agli occhi; vi pregherei inoltre di cavarmi gli occhi, e di permettere allora che il mio corpo così mutilato si ravvolgesse entro il proprio sangue fino all'istante in cui credereste di uccidermi402.» In tal modo quest'uomo intrepido rivolgeva la sua feroce immaginazione sopra di se medesimo, compiacendosi dell'aspetto del proprio dolore, come di quello degli altri.
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