Questa disfatta distrusse affatto la potenza del popolo fiorentino; tutta la città quando n'ebbe avviso riempissi di grida di donne che chiedevano i loro mariti, i fratelli, i figliuoli: pure rientrando i fuggitivi l'un dietro l'altro, andavano ripetendo, dice Lionardo Aretino, che non dovevansi piagnere coloro ch'erano morti per la patria in battaglia, ma coloro ch'erano sopravvissuti, perchè i primi avevano terminata gloriosamente la vita, gli altri rimasti ludibrio de' loro nemici. E con queste parole scoraggiarono in modo i loro concittadini, che tutta la parte guelfa risolse d'abbandonare la città, non perchè non fosse fortificata, o mancasse di difensori capaci di tenere molto tempo contro i nemici, ma perchè il tradimento de' Ghibellini alla battaglia d'Arbia faceva temerne di nuovi; tanto più ch'eranvi ancora molti Ghibellini in città, i quali tra la comune costernazione mostravano un'insultante gioja. Un principio di discordia erasi già manifestato tra i plebei del partito guelfo e la nobiltà, la quale disapprovava l'imprudente spedizione nello stato di Siena, e la ruina dell'armata. Mentre i ricchi borghesi che avevano abbracciato con zelo il partito guelfo, mostrarono la propria ambizione, e s'abbandonarono alla loro gelosia contro i gentiluomini della stessa fazione, il basso popolo, straniero al governo, vedeva con indifferenza la tornata dei Ghibellini; i quali altronde erano pure loro concittadini, la di cui vittoria non disonorava la gloria nazionale, sicchè non dovevasi, per respingerli, esporre la patria a nuovi pericoli.
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