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      I nobili veneziani si mantennero perchè si credettero deboli; i nobili lombardi si perdettero per essersi conosciuti forti. Dopo l'undecimo secolo la repubblica di Venezia non fu più lacerata da fazioni civili; cercò costantemente e di comune accordo gli stessi oggetti, al di fuori la gloria e la grandezza nazionale, nell'interno la soppressione del potere arbitrario, il mantenimento dell'eguaglianza tra i nobili, e della prosperità per tutti i sudditi.
      L'amministrazione della giustizia affidata ad un solo uomo nelle repubbliche lombarde diventò naturalmente arbitraria e violenta. Si credettero necessarie al mantenimento dell'ordine l'esecuzioni d'un podestà o capitano rivestito degli attributi dittatoriali; ma per mantenere l'ordine si sagrificò la libertà. In tempo che tutte le città d'Italia adottavano la straniera istituzione de' podestà, i Veneziani spogliavano il doge della pericolosa prerogativa di giudice criminale, ed affidavano questa delicata incumbenza ad un nuovo senato, la quarantia, che in appresso si chiamò vecchia o criminale per distinguerla da altri due tribunali composti egualmente di quaranta individui e destinati ad analoghe funzioni. La vecchia quarantia fu istituita l'anno 1179 dal maggior consiglio, di cui i giudici erano membri216.
      Il doge formò lungo tempo il consiglio de' pregadi con una scelta libera ed istantanea. Consultava intorno agli affari di stato chi voleva e quando voleva. La vigilanza del maggior consiglio impediva bensì che questa scelta arbitraria avesse funeste conseguenze per la nazione; ma ciò non bastava: pareva in opposizione allo spirito della repubblica il lasciare ad un uomo la facoltà d'accordare e di togliere titoli d'onore ed una pubblica confidenza; si ebbe timore che questa prerogativa potesse dargli una corte, e che l'adulazione guastasse il cuore de' gentiluomini; non volevasi che verun di loro scendesse sotto al livello de' suoi eguali, o si facesse a credere d'avere un superiore.


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Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo
Tomo III
di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi
1817 pagine 326

   





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