Questo principe, che scopriva tra i suoi aperti indizj di tradimento e di scoraggiamento, tentò di prender tempo ritardando la marcia di Carlo con proposizioni d'accomodamento; ma a' suoi ambasciatori rispose il conte in francese: «Andate, e dite al sultano di Nocera che io non voglio che battaglia; e che questo giorno o io metterò lui all'inferno, o egli manderà me in paradiso289.»
Il fiume Calore che scorre innanzi a Benevento divideva le due armate: forse se Manfredi si fosse approfittato delle sue naturali fortificazioni per evitare la battaglia, l'armata di Carlo, che già mancava di vittovaglie, sarebbe stata ridotta a dure necessità, come l'assicurano alcuni storici contemporanei; ma Manfredi non voleva rimanere più oltre nell'avvilimento di andare rinculando in faccia ad un nemico, cui ogni successo procacciava nuovi partigiani, e che fino allora aveva sempre saputo procurarsi munizioni col saccheggio delle campagne. Divise dunque la sua cavalleria in tre brigate: la prima di milleduecento cavalli tedeschi, comandata dal conte Galvano; la seconda di mille cavalli toscani, lombardi e tedeschi sotto gli ordini del conte Giordano Lancia; e la terza comandata da lui medesimo era composta di millequattrocento cavalli pugliesi e saraceni. Quando Carlo vide che Manfredi disponevasi a combattere, si volse a' suoi cavalieri e disse loro: «Venuto è il giorno, che tanto abbiamo desiderato;» poi fece quattro corpi della sua cavalleria, il primo di quattro mila cavalli francesi comandato da Gui di Monforte e dal maresciallo di Mirepoix; il secondo diretto da lui medesimo era composto di novecento cavalieri provenzali, ai quali aveva uniti gli ausiliarj di Roma; il terzo sotto gli ordini di Roberto di Fiandra e di Giles le Brun, contestabile di Francia, era formato da settecento cavalieri fiamminghi, brabantesi e piccardi; finalmente il quarto, capitanato dal conte Guido Guerra, era quello de' quattrocento emigrati fiorentini290. Questi corpi non formavano tutti assieme che un'armata di tre mila lance, e Giovanni Villani non ne dà un maggior numero a Carlo d'Angiò, forse per accrescer gloria al suo eroe, facendolo vincere con minori mezzi.
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