Fecesi dunque recare le chiavi della città, ed avendo fatta la rassegna de' suoi soldati per assicurarsi se tutti erano con lui, sortì in bella ordinanza alla loro testa il giorno 11 di novembre del 1266, ed andò la sera a Prato301.
Ma Guido appena arrivato in questa città si pentì della debolezza con cui aveva abbandonato Firenze senz'esserne cacciato, anzi senza quasi avere combattuto. All'indomani in sul far del giorno, si rimise in viaggio per tornare a Firenze, e presentatosi innanzi alla porta del ponte alla Carraja, domandò che gli fosse aperta; ma non era più tempo. Il popolo, che forse non sarebbe stato forte abbastanza per cacciarlo fuor di città, poteva allora vietargliene l'ingresso. Egli si rimase fino a mezzogiorno sotto le mura, adoperando sempre inutilmente le preghiere, le promesse e le minacce; in fine risolse di tornare a Prato. In questo frattempo i Fiorentini stavano riformando il governo; congedarono i due podestà Gaudenti chiamati da Guido; chiesero ajuto ad Orvieto la più vicina delle città guelfe; e mandarono ambasciatori a Carlo d'Angiò per ottenere la sua assistenza.
Carlo, benchè di diverso partito, seguiva la politica di Manfredi; per essere sicuro del regno di Napoli, voleva essere capo di parte in Toscana ed in Lombardia, e tenere in queste contrade due vanguardie, che impedissero l'avvicinamento de' nemici. Mandò quindi a Firenze del 1267 ottocento cavalieri francesi sotto il comando del conte Gui di Monforte; i quali entrarono in quella città il giorno di Pasqua, mentre i Ghibellini, che mediante una tregua vi erano tornati quell'inverno, ne uscivano spontaneamente esiliandosi senza fare la più piccola resistenza, e si rifugiavano a Pisa ed a Siena.
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