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      I talenti, le ricchezze, i natali, sono cagione di un'infinita disuguaglianza tra gli uomini; e coloro che riuniscono questi vantaggi, sono più capaci che gli altri di governare i loro compatriotti. Alla maggiore attitudine pel governo vi hanno fors'anche maggiore diritto degli altri. I talenti li rendono più capaci di fare il ben pubblico, e la ricchezza lega il loro interesse alla pubblica prosperità, come i natali all'onore nazionale. La società deve perciò approfittare della loro distinzione, e non confonderli nella folla dei cittadini inetti al governo; ma in pari tempo deve avere cura di non affidar loro tutti i suoi diritti. La società, abbandonata come una proprietà ai dotti, corre pericolo d'essere sagrificata a vane teorie, perciocchè i filosofi potrebbero con crudeli esperimenti far prova su di lei delle pericolose loro astrazioni. Abbandonata ai ricchi, sarebbe come un podere messo a profitto dal loro duro egoismo; la ferrea mano della necessità s'aggraverebbe sopra i poveri; e la prosperità, che altro non è se non che una concessione dell'ordine sociale, un privilegio accordato a pochi pel vantaggio di tutti, sarebbe resa più sacra che la sanità e la vita degli uomini. La società, assoggettata alla nobiltà, vedrebbe le sue classi inferiori avvilite dai nobili che si risguarderebbero quasi d'una natura diversa dai vili plebei, perciò conculcati ed oppressi. In vano questi riclamerebbero la protezione delle leggi, tutte rivolte a favorire la casta privilegiata, cui apparterebbero esclusivamente la gloria e gli onori.


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Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo
Tomo IV
di Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi
1817 pagine 288