E allora divento rosso e zitto, nell'angolo del tavolino; e penso alla consolazione dei grandi alberi aperti al vento. Penso avidamente al sole sui colli, e alla prosperosa libertà; ai veri amici miei che m'amano e mi riconoscono in una stretta di mano in una risata calma e piena. Essi sono sani e buoni.
Penso alle mie lontane origini sconosciute, ai miei avi aranti l'interminabile campo con lo spaccaterra tirato da quattro cavalloni pezzati, o curvi nel grembialone di cuoio davanti alle caldaie del vetro fuso, al mio avolo intraprendente che cala a Trieste all'epoca del portofranco; alla grande casa verdognola dove sono nato, dove vive, indurita dal dolore, la nostra nonna.
Era bello vederla seduta nella larga terrazza spaziante su enormi spalti le montagne e il mare, lei secca e resistente accanto all'altra mia nonna, la veciota venesiana, rubiconda e spensierata, che aveva quasi ottant'anni e le si vedeva ancora il forte palpito azzurrino del polso sollevarsi e cadere nella pelle morbida come una foglia. Questa mi parlava dell'assedio di Venezia, del sacco di patate in mezzo la cantina, della bomba che fracassò un pezzo di casa. E aveva un fazzolettino bianco sui pochi capelli fini, ed era allegra. Quando veniva a mangiare da noi, babbo le diceva sempre: "Beati i oci che i la vedi".
Ma allora essa non m'interessava. Io filavo in campagna a giocare con gli alberi.
Il nostro giardino era pieno d'alberi. C'era un ippocastano rosso con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi non potendolo piú levare ci lasciavo la scarpa.
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Trieste Venezia
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