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      Vila è buona e bella. Ha una camicia rossa scarlatta, un berrettino da giochei, scarpettine con tacco alto, e quando gioca a tamburello salta meravigliosamente da una parte all'altra.
      Secchi, netti colpi battevamo col tamburello nell'ampio piazzale davanti alla grande casa gialla! Quando Scipio e Vila giocano, gl'inquilini guardano sorridenti dalle finestre e gridano: "Bravo! bene!". La palla rota come un punto di fuoco da me a lei, da lei a me: "stan - e stan; stan - e stan". Dice il colpo: ti voglio bene. Risponde il colpo: ti voglio bene. Il sole è alto. È l'estate, amore.
      Cari tempi erano quelli, amorosi e gloriosi. Mia era Vila, una signorina, Vila amata da Ucio, corteggiata da tutti i ragazzi della campagna. Riceveva cartoline da ricchi giovanotti, da studenti delle lontane università; ma ella rideva con me e mi baciava. Era mia. Io solo andavo con lei per la campagna, in cerca delle gocce di gomma sui tronchi dei susini, dei quadrifogli nell'erba, coprendola colle mie braccia quando pioveva.
      Mi accompagnava nelle scorrerie ladresche oltre il confine della campagna, temendo quando scalavo cauto i muri sconnessi che minacciavan rovina. Portavo per lei, fra le labbra, la piú bella pera, ed essa mi calava sui suoi ginocchi e mi baciava avidamente.
      Io ero come un piccolo signore. Ero felice che lei godesse della mia forza e della mia temerarietà. Perché avevo undici anni, ma neanche i contadini mi sapevano agguantare in corsa, e scalai il pioppo e l'elianto che tutti dichiaravano impossibili.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





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