Perché mi lascio condurre da questo imbecille?
Ha le spalline grosse, giallonere. Perché non lasciarmi condurre da lui? Si va dove non so, ma non è necessario ch'io sappia. Mi conduce lui, svolta, scantona, e i miei piedi si pongono sempre paralleli ai suoi. La baionetta scintilla molto lucida. È carico il tuo schioppo?
Perché non mi risponde? E un garzone di beccaio, invece di far due passi di piú, salta oltre la panca di passeggio, e il grembiule macchiato di sangue vecchio si gonfia e sbatte svolazzando. Appena siamo passati ci guarda e urla: «Dèghe al giandarmo!». Scappa.
Io vedo bene pulsare l'arteria nel collo di questo imbecille. E le mie mani sono molto lunghe, e sono come ossa ai polpastrelli. E non c'è gente. Alboino... Ma io sono piú che Alboino. Io sono piú che Bismarck. Io stringo insensibilmente il pollice dentro le altre dita e faccio della mano una piú sottile prolungazione del polso. Lentamente scivolo fra le sue dita rallentate per il freddo. Intanto parlo: «Triste vita la loro! Ché! Capisco bene che lei fa il suo dovere. Quante ore di servizio hanno? otto? consecutive? e lassú in carso, con tutti i tempi, di notte». Nella gola mi cantano alcune parole fresche che la mia bella veciota venesiana me l'insegnò: "Né per torto né per rason, no state far meter in preson". Guardo negli occhi il gendarme, strappo, via. Viva la libertà! Io sono italiano.
Neanche mi rincorse. E io, dopo duecento metri di corsa furiosa, rimasi male a vederlo impalato, lontano. Poi riprese la sua marcia cadenzata, toc, tac, in direzione opposta.
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Alboino Bismarck
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