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      Toc, tac, pare che s'avvicini, che sia qua dietro a me, con la sua mano sulla mia spalla. Filai in un portone: nel casotto del portinaio c'è un cranio calvo, assiepato da una corona di capelli fini, di bimbo, curvo su una scarpetta da signora. Esco; mi pianto la berretta piú salda in testa, mi ravvolgo nella mia mantella e cammino picchiando con forza il lastrico, come se tra esso e i miei scarponi sia qualche cosa che bisogna vincere.
      Poi corsi al mare.
      Nel mare mi lavai il viso e le mani. Bevvi l'acqua salsa del nostro Adriatico. Lontano, nel tramonto, le alpi italiane eran rosse e oro come dolomiti. Sui trabaccoli romagnoli calavano le allegre bandiere tricolori, e il focolaietto di bordo fumava per la polenta. Mare nostro. Respirai libero e felice come dopo un'intensa preghiera.
      Ma m'accorsi, dopo, che la gente mi guardava. I miei scarponi bullettati eran polverosi e i miei atti curiosi. Non avevo il viso di quella gente perfetta che camminava su e giú per le rive senza andare in nessun posto. Era gente che guardava ed era guardata. I giovanotti avevano larghi soprabiti a campana, con di dietro un taglio lungo, come le giubbe dei servitori, e bastoni grossi e lievi che volevano sembrare rami appena scorzati. Le signorine erano accompagnate dal babbo o dalla mamma, e avevano stivalini lustri, come i dorsi delle blatte. Erano stivalini assai piú puliti e limpidi che i loro occhi. Anch'esse mi guardavano, con contegno; ma s'io le guardavo, voltavan gli occhi. Non sanno sostenere uno sguardo d'uomo.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





Adriatico