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      Camminava con il passo delle guide. Parlava lentamente, con voce bassa, profonda, negli occhi una gioia quasi puerile per ciò che raccontava, ma d'una puerilità pregna di dolore e disperazione. Non aveva che la famiglia; e la moglie gli era morta; una figlia gli s'era uccisa; un'altra aveva abbandonato il marito e s'era fatta canzonettista. Non piangeva; ma quando, seduto nel nostro salotto, tossiva, la corda piú bassa dell'arpa di mamma dava una vibrazione lunga, terribile. Era stanco e quasi sfinito. Mamma gli diceva: «Eh, su, coragio, ti xe ancora come un giovinoto!» ed egli sorrideva: «Sí, son ancora forte; ma...» e sollevava il braccio destro nella posizione in cui si spiana lo schioppo, e il braccio gli tremava benché egli alzandolo aveva sperato che gli stesse fermo. «Ma le gambe le xe ancora bone» concludeva. E ancora, per la terza o quarta volta, si rimise, a cinquant'anni, e andava a caccia, e progettava di costruirsi una casetta in carso, vicino a Gropada, su una terrazza calcarea dominante un vasto orizzonte di grebani e cielo. Mi ricordo che ci tracciò col bastone ferrato i limiti dove sarebbe sorta la casa.
      Era intelligente e nessuno sa quante cose nostre, che ora a poco a poco cominciano a esser discusse, egli già ne parlava con chiarezza, come uno cosí fuori dalle osservazioni e valutazioni abituali che gli è naturale e ovvio comprendere verginamente le cose, e si meraviglia che la gente non abbia le sue idee.
      Era sempre in carso e i contadini lo chiamavano "el paron". I conoscenti gli chiedevano, tanto per dir qualche cosa: «Ma no ti ga paura d'esser sempre fra quei s'ciavi duri?


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





Gropada