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      Ordino in pacchetto regolare le lunghe cartelle verdognole, le numero: devo scrivere due articoli: la recensione della novità e l'intervista: in un'ora e mezza. (L'intervista potevo scriverla la mattina dopo; ma mi piaceva aumentare il lavoro febbrile.) Bene. Che dirò a lei? È bella. E il Piccolo è il giornale piú diffuso di Trieste: io, in questo momento, ne sono il critico teatrale.
      Una folata d'immagini come al ritorno delle rondini: ero accanto a un bosco autunnale, e soffiava la bora, e le foglie d'oro e di porpora turbinavano intorno a me? Nella mia anima, certo, fu un subbuglio, un accorrere, un saltellío guizzante, come in una vasca di parco quando un bimbo butta una mica di pane. Ma il rosso belletto delle labbra e la polvere d'oro dei capelli di lei mi parodiò; e io ne fui spaventato come guardandomi in uno specchio convesso. Scrissi molto male della commedia che m'era piaciuta, per vendetta, perché anch'io avevo bisogno di violare la realtà altrui. Ma il direttore si fece portare le cartelle prima che andassero in tipografia, mi chiamò, mi rimproverò aspramente e stracciò l'articolo.
      Uscendo di redazione, la prima alba mi faceva male sugli occhi stanchi.
     
     
      Una notte, dopo qualche anno, una notte di lavoro terribile perché era morto il papa, io fissavo la lampada a gas sul mio tavolo. Sentivo andare, borbottare, scartabellare, rombare intorno a me, sempre piú lontano, lontanissimo, e pensavo, chissà perché, a Caino e Abele. Dicevo a Dio ch'egli era molto ingiusto con Caino: perché non accetti il suo fumo? i rami carichi di frutti e le biade non valgono l'agnello di Abele?


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103

   





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