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      Specialmente mi desideravo la piena calma marina, se il vento fosse cessato improvvisamente.
      Avevo bisogno di star solo. Andavo per le strade poco frequentate, nell'ombra degli alti casamenti rettangolari, e mi guardavo intorno spiando di lontano il viso dei passanti. Temevo d'esser conosciuto, d'esser salutato, di dover salutare. Un amico mi mandò una cartolina: perché non gli scrivevo? "Poiché non vuoi, non vengo. Ma non è bello che tu sia cosí scontroso ed egoistico nel tuo dolore. Proprio ora l'amicizia ti farebbe bene." Tutte buone care persone: ma io ero in cerca di lontananza.
      Stavo solo, nella mia stanzetta, e ogni sera sentivo battere lente le nove, poi le nove e mezzo, poi le dieci, poi le dieci e mezzo... Il tempo camminava come si va nei pomeriggi domenicali, portandosi addosso la noia di tutti gli uomini. E ogni notte sentivo passare una carrozza nella via, poi la voce di tutti i nottambuli che gridavano alla moglie o alla mamma per la chiave.
      Ecco - pensavo - ora mi metto a leggere, piglio appunti, studio. Ma calavo la testa sulle braccia raggomitolate - e non potevo piangere.
      Non potevo dormire. Ero sotto l'incubo di un'afa grave. E uno usciva di casa nella notte e camminava con passi stanchi. Sognavo di una lunga notte di bora, che i pochi viandanti camminano curvi contro di essa, senza pensare. Mi sognavo soprattutto di cedri infissi nel fondo del mare, che a poco a poco impietravano. Avevo bisogno di sassi e di sterilità. E mi ricordai del carso, e dentro ebbi un piccolo grido di gioia come chi ha ritrovato la patria.


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Il mio Carso
di Scipio Slataper
pagine 103