I versi eramo mediocri, ma giudicando dal modo col quale erano scritti, si poteva giurare che quello che li aveva vergati aveva fatto anche troppo e che aveva un'anima molto più sensibile di tutte le altre che si trovavano in quelle catapecchie. I versi son questi; ve li riscrivo tali e quali, chiedendo scusa all'anonimo autore dell'indiscrezione, e ai miei lettori qualora non andassero loro a fagiuolo.
Campanella che rammenti Al dolente prigioniero I dolori ed i tormenti Di una vita, che finì... Deh! Riporta al mio pensiero Le speranze d'altri dì.
Di quei dì, che una tranquilla Gioia al Cielo mi rapia: Fissa in Lei la mia pupilla Comprendevo la beltà, Comprendevo la poesia Sentia in cuor la libertà
Or son morto, o campanella Suona, suona a funerale Più non veggo la mia bella Più non palpita il mio onor Sul mio letto sepolcrale Suona i tocchi del dolorE qui il poeta finiva e la parola dolor con cui avea terminato tu la vedevi ripetuta ai quattro angoli dell'ode!... Sia stato un malfattore colui che vergò questi versi?... Se anche lo fu, è certo che fu più infelice di quello che fosse colpevole!
Passammo altri due giorni in questa completa atonia; già tre giorni che eravamo separati da tutti, già tre giorni col timore che i nostri compagni avessero bruciato delle cartuccie contro i Prussiani!... Finalmente venne l'interrogatorio: un interrogatorio pro forma, dove ognuno rispondeva a casaccio tutto quello che gli veniva alla bocca, dove s'inventavano scuse così magre e storie così bambinesche, che sarebbero cadute al primo soffio di un accusatore, fosse anche il più dozzinale.
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Da Firenze a Digione
Impressioni di un reduce garibaldino
di Ettore Socci
Tipografia sociale Prato 1871
pagine 297 |
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