Sapemmo anche per mezzo della nostra interlocutrice, quanto fu lo spavento da cui fu colto il generale Werder, quando Garibaldi tentò di sorprenderlo la sera del 26 novembre: tutti i cariaggi erano stati preparati, tutte le disposizioni per una ritirata erano state ordinate in men che si dice; i soldati avevan fatto fagotto: i battaglioni di riserva erano adunati nelle piazze, e di momento in momento altro non si attendeva che l'ordine della partenza.
La signora ci rese informati di un episodio, che poi ci fu dato raccogliere anche da tutti gli altri cittadini che avvicinammo; episodio ben meschino a paragone di quelli che si svolsero in quel maraviglioso periodo di storia che farà stupire i nostri posteri, ma che ci si dava come ragione principale dello sgombro della città da parte dei soldati Germanici. Io credo però che quello che ci si raccontava, come verità indiscutibile, non fosse altro che una di quelle storielle, che nascono non si sa come, che si propagano con facilità straordinaria in un momento in cui una nazione ha perso la bussola, ma che cadon di subito di faccia alle riflessioni che può ispirare il più volgare buon senso.
Secondo questi discorsi il buon Werder, che è un cattolicone coi fiocchi, uno di quei cattolici per cui il regno dei cieli è spalancato come per tutti i poveri di spirito, dopo un lungo colloquio che aveva avuto col vescovo di Djon, degno servo dì Dio, avrebbe preso le sue carabattole e cheto come un olio, spaventato dalle minaccie dei fulmini dell'ira divina aveva trasferito le sue tende ben lontano da quella città, dove sarebbe piovuto acqua bollente se egli si fosse piccato di continuare un occupazione in odio alle tremende divinità che reggono il mondo.
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Da Firenze a Digione
Impressioni di un reduce garibaldino
di Ettore Socci
Tipografia sociale Prato 1871
pagine 297 |
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