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Noi secondo l'abitudinaccia nostra si diceva male di tutto e di tutti, si stroncava per passatempo qualche reputazione, si prendevano in burletta certe cose che, convengo pel primo, sarebbe stato assai meglio pigliare sul serio. Le nostre lingue sono un po' lunghe... d'altronde è un difetto organico, che si sviluppa frequentando la società!... Il Rossi soltanto non prendeva parte alcuna alle nostre maldicenze; anzi con fare affettuoso e paterno ci faceva delle reprimende che per lo più terminavano in lirismi ed in voti di esagerate speranze per l'avvenire. Il Rossi aveva la fede e l'energia di un apostolo, la fermezza di un cospiratore, il fanatismo del martire. Sempre eguale a se stesso: nella sua officina a Firenze, nelle prigioni che spesse volte aveva assaggiato per non voler troppo bene al presente ordine di cose, nei combattimenti dove aveva a incontrare poco dopo tanto gloriosamente la morte, egli avrebbe creduto di peccare smentendo se stesso, anche così per far chiasso in una conversazione d'amici. A sentir lui era certo il trionfo della repubblica, non solamente in Francia ma in un'altro paese dove egli era sicuro che Garibaldi ci avrebbe portato appena distrigati gli ultimi conti coi fedeli alleati della Grazia di Dio. Figuratevi in quella combriccola di scapestrati, quale effetto facessero le parole calme, dolci di questo giovine la cui perdita ha lasciato tanto voto nelle file dell'esiguo partito democratico della mìa bella Firenze.
È inutile: il Rossi parlava come un santo, ma quella sera doveva essere baccano: si festeggiava il nostro arrivo e non poteva essere a meno!
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Da Firenze a Digione
Impressioni di un reduce garibaldino
di Ettore Socci
Tipografia sociale Prato 1871
pagine 297 |
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