Ma voi fate l'esigenza che il conoscere deve esser reale (che il non-io sia reale, e non solo nell'Io), per dire identità. Ora il conoscere non potrebbe essere semplice conoscere, cioè il non-io essere semplicemente nell'Io, e l'Io essere l'unico reale? Se il non-io è reale, segue certamente che per esser conoscibile, deve essere in sè Io: quindi la identità. Ma se non è reale? Adunque, la identità, - almeno così pare, - nasce dal supposto della realtà del non-io. Si esige questa realtà, e si conchiude quindi la identità". Fichte prova la possibilità del conoscere, non la realtà. Gli antichi volevano dalla realtà (dall'oggetto) ricavare la possibilità. Non riuscirono. Il conoscere non si prova che da sè, non da quel che non è conoscere. Gli antichi supponevano la realtà; non ne dubitavano. E da questo dato, da questo reale, cercavano di spiegare il conoscere: il conoscere da quel che non è conoscere. Schelling, pare, rimetta in campo il reale, e dica: reale, reale conoscibile; dunque, identità.
Non si potrebbe dallo stesso principio di Fichte, dalla possibilità del conoscere (dall'autocoscienza), derivare il Reale, la realtà del conoscere? E quindi la identità?
Non si può. "Io nel non-io, e non-io nell'Io, e quindi identità d'Io e non-io (identità, che è l'Io, il vero Io)", vuol dire solo identità d'Io e di non-io possibile, di non-io nell'Io, non già d'Io da una parte, e di non-io dall'altra fuori dell'Io, di non-io reale: vuol dire solamente: se il non-io è reale, per essere conoscibile deve avere questa natura, che in esso sia l'Io.
| |
Fichte Reale
|