E s'ebbi cara la cena, assai piú care mi riescirono le grazie che se ne resero al cielo.
LXVIII
LE GRAZIE
Però che il vecchio picchiò del manico del suo coltello sul desco, e fu a tutti segnale che s'allestissero al ballo.
E le fanciulle e le donne corsero in fretta alle prossime camere a rannodarsi le trecce; e i giovinotti presso la porta a ripulirsi il viso nella fontana, ed a sbrogliarsi de' loro sabots(133); né vi fu chi in tre minuti non si trovasse già bello e lesto sull'aiuola dinanzi alla casa. Il padre di famiglia e la sua donna uscirono ultimi; e mi posero a sedere in mezzo a lor due, sopra un sofà d'erba accanto alla porta.
Fu già, cinquant'anni addietro, il buon vecchio un competente suonatore di viola, ma per allora suonava sufficientemente quanto al bisogno: la sua vecchierella gli faceva tenore canterellando, poi faceva pausa, poi ripigliava la sua canzonetta; e i loro figliuoli e nipoti ballavano tutti quanti davanti ad essi, a quel suono.
Se non che, a mezzo il secondo ballo, nella breve pausa che vi frapposero, gli occhi di tutti s'alzarono; ed immaginai di scorgere ne' loro sembianti certa elevazione di spirito, che non ha che fare con l'esultanza che precede e succede all'innocente tripudio. Parvemi insomma che la religione s'accompagnasse alla danza: ma perch'io, non l'aveva mai veduta in tal compagnia(134), l'avrei per certo creduta una delle tante illusioni della mia fantasia che mi divaga come a lei pare e piace ogni sempre, se il vecchio sul finir della danza non mi diceva ch'egli per consuetudine antica, e per regola impreteribile, aveva in tutte le sere della sua vita chiamata dopo cena la sua famiglia a ricrearsi a ballare; perch'io, diceva egli, son certo che un cuore ilare e pago è il ringraziamento migliore che un campagnuolo idiota possa rendere al cielo.
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