Shelby prese un po’ d’uva e la lanciò verso lui.
— Piglia, Enrico, piglia! — gli disse.
Il fanciullo si slanciò con quanta forza aveva, e questo fece ridere il suo padrone.
— Vieni qua. —
Egli si accostò al padrone, che gli pose la mano fra i capelli e gli diè una lisciatina sulla guancia.
— Enrico, fai vedere a questo signore come sai cantare e ballare. —
Subito il fanciulletto intonò con voce chiara e sonora uno di quei canti selvaggi e grotteschi usati fra i negri; nel tempo stesso faceva con le braccia, con le mani, con tutto il corpo varie mosse comiche, ma in accordo perfetto con la musica.
— Bravo! — esclamò Haley porgendogli uno spicchio di arancia.
— Enrico, — disse Shelby — cammina al modo del vecchio zio Cudgioe quando ha i dolori reumatici. —
Subito le pieghevoli sue membra si atteggiarono alla deformità e allo storcimento.
Curvato il dorso, col bastone di Shelby in mano, col volto contraffatto, si diè a camminare intorno alla sala sputacchiando a destra e a sinistra come un vecchio.
I due spettatori si sbellicavano dalle risa.
— Enrico, mostraci come il vecchio Elder Robbins canta il salmo in chiesa. —
Il fanciullo allungò in modo strano il suo viso paffuto, e canticchiò in tono nasale un salmo con imperturbabile gravita.
— Bravo! — gridò Haley. — Questo bimbo fa per me. Aggiungete questo fanciullo, — disse battendo con la mano sulla spalla di Shelby — e la faccenda è conclusa. —
In quel momento l’uscio, sospinto pian piano, si aprì, ed una meticcia di venticinque anni circa entrò nella sala.
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