Lo zio Tom è un uomo d’alta statura, di forza erculea, di largo petto; il suo viso è di un bel nero lucido; i suoi lineamenti, che sono quelli del vero tipo affricano, hanno l’espressione della gravità e del buon senso, a cui si uniscono una benevolenza ed una grazia innate; in tutto il suo aspetto si scorge un non so che di dignità e di rispetto di se medesimo, nonostante un’apparenza di semplicità.
Egli aveva in mano una lavagna sulla quale stava occupato con grande attenzione a formar lentamente e diligentemente alcune lettere copiandole da un esemplare, mentre il suo giovane maestro, Giorgio, giovinetto di tredici anni, vivace e intelligente, con tutto il sussiego di un pedagogo sorvegliava quell’esercizio dello zio.
— Così non va bene, zio Tom; non da quella parte! — diceva Giorgio vivamente a Tom, che si affannava di torcere al rovescio la coda di un g. — Non vedete, zio, che ne fate un q? —
E qui Giorgio presa in mano la matita, tracciò quella lettera dell’alfabeto con tanta prestezza, che Tom ne rimase sbalordito.
— Si fa proprio così? — disse Tom, guardando con maraviglia e rispetto il suo giovane maestro che moltiplicava rapidamente una quantità di g e di q perché gli servissero di esemplare.
Indi, ripresa la matita nella mano inesperta, ricominciò con pazienza a copiare.
— Oh, come i bianchi fanno bene tutte le cose! — disse la zia Cloe fermandosi mentre stava strofinando la padella con un pezzo di lardo infilzato sulla punta d’una forchetta. Poi, guardando con orgogliosa compiacenza il giovinetto, soggiungeva:— Come sa ben leggere e scrivere corrente!
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